Pubblichiamo qui la
trascrizione integrale della della «Lectio magistralis» tenuta
da Umberto Eco alla Fiera del libro di Torino.
«Anni fa, quando a Torino si è aperto il Salone del
libro, non ricordo se per qualche anno o solo per il primo,
c’era anche una sezione antiquaria. Non so quanto gli
antiquari, in un salone frequentato da un pubblico che
abitualmente va in cerca di cose contemporanee, abbiano
venduto, e se siano stati loro a decidere di non venire più
oppure se la direzione del salone non li abbia più invitati.
Ricordo solo che mi era molto dispiaciuto perché, quando
c’erano, ho visto intere scolaresche percorrere il loro
settore e soffermarsi davanti a vetrinette con incunaboli o
altre edizioni di pregio, e guardare incantati quei reperti
mai visti, quelle incisioni sorprendenti, quei capolavori di
tipografia. Anche se non si vendesse un solo libro, la
presenza del libro antico in questo salone, così frequentato
da giovani, ha un grande valore educativo, e sono lieto che
questa volta gli antiquari siano tornati. Per questo ho deciso
di dedicare questa mia conversazione alla passione di
collezionare libri antichi o comunque rari.
Cos’è la
bibliofilia? Narra la leggenda che Gerberto d’Aurillac, papa
Silvestro II, il papa dell’anno mille, divorato dal suo amore
per i libri abbia un giorno acquistato un introvabile codice
della Farsaglia di Lucano, promettendo in cambio una sfera
armillare in cuoio. Gerberto non sapeva che Lucano non aveva
potuto terminare il suo poema, perché nel frattempo Nerone lo
aveva invitato a tagliarsi le vene. Cosicché ricevette il
prezioso manoscritto ma lo trovò incompleto. Ogni buon amatore
di libri, dopo aver collazionato il volume appena acquistato,
se lo trova incompleto lo restituisce al libraio. Gerberto,
per non privarsi almeno di metà del suo tesoro, decise di
inviare al suo corrispondente non la sfera intera, ma solo
mezza.
Trovo questa storia mirabile, perché ci dice che
cosa sia la bibliofilia. Gerberto voleva certamente leggere il
poema di Lucano - e questo ci dice molto sull’amore per la
cultura classica in quei secoli che ci ostiniamo a ritenere
oscuri - ma se fosse stato solo così avrebbe richiesto il
manoscritto in prestito. No, lui voleva possedere quei fogli,
toccarli, forse annusarli ogni giorno, e sentirli cosa
propria. E un bibliofilo che, dopo aver toccato e annusato,
trova che il libro è monco, che ne manca anche solo il
colophon o un foglio di errata, prova la sensazione di un
coitus interruptus.
Certo ci sono bibliofili che
collezionano a soggetto e persino leggono i libri che
accumulano. Ma per leggere tanti libri basta essere topo di
biblioteca. Il bibliofilo, invece, anche se attento al
contenuto, vuole l’oggetto, e che possibilmente sia il primo
uscito dai torchi dello stampatore. A tal segno che ci sono
bibliofili, che io non approvo ma capisco, i quali - avuto un
libro intonso - non ne tagliano le pagine per non violare
l’oggetto che hanno conquistato. Tagliare le pagine al libro
raro sarebbe come, per un collezionista di orologi, spaccare
la cassa per vedere il meccanismo.
L’amatore della
lettura, o lo studioso, ama sottolineare i libri
contemporanei, anche perché a distanza di anni un certo tipo
di sottolineatura, un segno a margine, una variazione tra
pennarello nero e pennarello rosso, gli ricorda un’esperienza
di lettura. Io possiedo una Philosophie au Moyen Age di Gilson
degli anni cinquanta, che mi ha accompagnato dai giorni della
tesi di laurea a oggi. La carta di quel periodo era infame,
ormai il libro va in briciole appena lo si tocca o si tenta di
voltarne le pagine. Se esso fosse per me soltanto strumento di
lavoro, non avrei che a comperare una nuova edizione, che si
trova a buon mercato. Potei persino impiegare due giorni a
risottolineare tutte le parti annotate, riproducendo colori e
stile delle mie note, che cambiavano durante gli anni e le
riletture. Ma non posso rassegnarmi a perdere quella copia,
che con la sua fragile vetustà mi ricorda i miei anni di
formazione, e i seguenti, e che è dunque parte dei miei
ricordi.
Si debbono sottolineare, anche solo a margine,
i libri rari? In teoria una copia perfetta, se non intonsa,
deve essere a grandi margini, bianca, con le pagine che
crocchiano sotto le dita. Ma una volta ho acquistato un
Paracelso, di scarso valore dal punto di vista antiquario,
perché si trattava di un solo volume della 1a edizione
dell'opera omnia compilata da Huser, 1589-1591. Se l’opera non
è completa, che gusto c’è? Ma, rilegato in mezza pelle coeva,
con nervi al dorso, uniforme media arrossatura, firma
manoscritta sul frontespizio, tutto il volume è intessuto di
sottolineature in rosso e nero e di note marginali coeve, con
titoli maiuscoletti in rosso, e silloge latina del testo
tedesco. L’oggetto è bellissimo a vedersi, le note si
confondono col testo stampato, e spesso lo sfoglio col piacere
di rivive l’avventura intellettuale di chi lo ha segnato con
la propria testimonianza manuale.
Ci sono i bibliofili
e ci sono i bibliomani. Per stabilire una linea di confine tra
bibliofilia e bibliomania farò un esempio. Il libro più raro
del mondo, nel senso che probabilmente non ne esistono più
copie in libera circolazione sul mercato, è anche il primo,
ossia la Bibbia di Gutenberg. L’ultima copia circolante è
stata venduta nel 1987 ad acquirenti giapponesi per qualcosa
come otto miliardi - al cambio di allora. Se ne venisse fuori
una prossima copia, non varrebbe otto miliardi, bensì ottanta,
o mille.
Dunque ogni collezionista ha un sogno
ricorrente. Trovare una vecchietta novantenne che ha in casa
un libro che cerca di vendere, senza sapere di che si tratti,
contare le linee, vedere che sono 42 e scoprire che è una
Bibbia di Gutenberg, calcolare che alla poveretta restano solo
pochi anni di vita e ha bisogno di cure mediche, decidere di
sottrarla all’avidità di un libraio disonesto che
probabilmente le darebbe qualche migliaio di euro (e lei ne
sarebbe già felicissima), offrirle centomila euro con cui essa
si rimpannuccerebbe estasiata sino alla morte, e mettersi in
casa un tesoro.
Dopo di che, cosa accadrebbe? Un
bibliomane, terrebbe la copia segretamente per se, e guai a
mostrarla perché solo a parlarne si mobiliterebbero i ladri di
mezzo mondo, e dunque dovrebbe sfogliarsela da solo alla sera,
come Paperone che fa il bagno nei suoi dollari. Un bibliofilo,
invece, vorrebbe che tutti vedessero questa meraviglia. Allora
scriverebbe al sindaco della sua città, gli chiederebbe di
ospitarla nel salone principale della biblioteca comunale,
pagando con fondi pubblici tutte le enormi spese di
assicurazione e sorveglianza, e consentendogli il privilegio
di andarla a vedere ogni volta che desidera, e senza fare la
coda. Ma che piacere sarebbe quello di possedere l’oggetto più
raro del mondo senza potersi alzare alle tre di notte e
andarlo a sfogliare? Ecco il dramma: avere la Bibbia di
Gutenberg sarebbe come non averla. E allora perché sognare
quella utopica vecchietta? Ebbene, il bibliofilo la sogna
sempre, come se fosse un bibliomane.
Il bibliomane
talora ruba libri. Potrebbe rubarli anche il bibliofilo,
spinto dall’indigenza, ma di solito il bibliofilo ritiene che,
se per avere un libro non ha compiuto un sacrificio, non c’è
piacere della conquista bensì soltanto stupro. Il bibliomane
invece ruba libri con mossa disinvolta mentre parla col
libraio: gli addita un’edizione rara sullo scaffale alto e ne
fa scomparire una altrettanto rara sotto la giacca; oppure
ruba parti di libri andando per biblioteche dove taglia con
una lametta da barba le pagine più appetibili. Ci sono persone
di buona cultura, soddisfacente condizione economica, fama
pubblica e reputazione quasi immacolata, che rubano libri per
incontenibile passione, e gusto del brivido, come i ladri
gentiluomini che rubano solo gioielli famosi. Il ladro
bibliomane si vergognerebbe di rubare una pera dal banco del
fruttivendolo, ma giudica eccitante e cavalleresco rubare
libri, come se la dignità dell’oggetto ne scusasse il furto.
C’è poi la biblioclastia. Ci sono tre forme di
biblioclastia, la biblioclastia fondamentalista, quella per
incuria e quella per interesse. Il biblioclasta
fondamentalista non odia i libri come oggetto, ne teme il
contenuto e non vuole che altri li legga. E’ il caso dei roghi
o dell'incendio della biblioteca di Alessandria che (secondo
una leggenda che ormai è considerata falsa) fu messa fuoco da
un califfo seguendo il principio che o tutti quei libri
dicevano la stessa cosa del Corano e allora erano inutili, o
dicevano cose diverse e allora erano dannosi.
La
biblioclastia per incuria è quella di tante biblioteche
italiane, così povere e così poco curate, che non di rado
diventano luoghi di distruzione del libro; perché c'è un modo
di distruggere i libri lasciandoli deperire o facendoli
scomparire in penetrali inaccessibili.
Il biblioclasta
per interesse distrugge i libri perché vendendoli a pezzi ne
ricava molto più che vendendoli interi. Quanto conviene
sfasciare un libro completo? In un catalogo su Internet trovo
che una mappa tratta da una delle prime edizioni della
Cosmographia di Sebastian Münster (1570) viene offerta a 1200
euro. Ora la Cosmographia ha una quarantina di vedute di città
a doppia pagina, 14 carte geografiche a doppia pagina, più una
novantina di legni nel testo. Senza calcolare che i prezzi
possono variare a seconda se la mappa o veduta è a pagina
semplice, doppia, e ripiegata più volte, e che si vendono
persino le pagine coi piccoli legni nel testo, voliamo basso
e, fissando una media di mille euro solo per ogni mappa o
veduta a doppia pagina, raggiungiamo la cifra di 50.000 euro
circa. Ora vedo su cataloghi recenti che un Münster completo
può valere anche 30.000 euro, ma se si è fortunati non è
impossibile averne una copia decente per 20.000 euro.
Dunque, se si sfasciasse oggi una Cosmographia 1570,
spendendo 20.000 euro se ne incasserebbero 50.000. Conviene,
no? Naturalmente la copia completa che apparirà
successivamente sul mercato, diventata più rara, costerà il
doppio, e il doppio costeranno le tavole sciolte. Così in un
colpo solo si distruggono opere di incommensurabile valore, si
costringono i collezionisti a sacrifici insostenibili, e si
accresce il prezzo delle tavole singole.
Il bibliofilo
raccoglie libri per avere una biblioteca. Una biblioteca non è
una somma di libri, è un organismo vivente con una vita
autonoma. Una biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si
raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per conto
nostro. Mi spiego. Credo che sia capitato a tutti coloro che
hanno in casa un numero abbastanza alto di libri di vivere per
anni con il rimorso di non averne letti alcuni, che per anni
ci hanno fissato dagli scaffali come a ricordarci il nostro
peccato di omissione. A maggior ragione accade con una
biblioteca di libri rari, che talora sono scritti in latino o
addirittura in lingue ignote, e inoltre un libro antico
bellissimo come oggetto, e con belle immagini, può essere
anche noiosissimo.
Però ogni tanto accade che un
giorno prendiamo in mano uno di questi libri trascurati,
incominciamo a leggiucchiarlo, e ci accorgiamo che sapevamo
già tutto quel che diceva. Questo singolare fenomeno, di cui
molti potranno testimoniare, ha solo tre spiegazioni
ragionevoli. La prima è che, avendo nel corso degli anni
toccato varie volte quel libro, per spostarlo, spolverarlo,
anche soltanto per scostarlo onde poterne afferrare un altro,
qualcosa del suo sapere si è trasmesso, attraverso i nostri
polpastrelli, al nostro cervello, e noi lo abbiamo letto
tattilmente, come se fosse in alfabeto Braille. Io non credo
ai fenomeni paranormali, ma in questo caso il fenomeno è
normalissimo, certificato dall’esperienza quotidiana. La
seconda spiegazione è che non è vero che quel libro non lo
abbiamo letto: ogni volta che lo si spostava vi si gettava uno
sguardo, si apriva qualche pagina a caso, qualcosa nella
grafica, nella consistenza della carta, nei colori, parlava di
un’epoca, di un ambiente. E così, poco per volta, di quel
libro se ne è assorbita gran parte.
La terza
spiegazione è che mentre gli anni passavano leggevamo altri
libri in cui si parlava anche di quello, così che senza
rendercene conto abbiamo appreso che cosa dicesse (sia che si
trattasse di un libro celebre, di cui tutti parlavano, sia che
fosse un libro banale, dalle idee così comuni che le
ritrovavamo continuamente altrove). In verità credo che siano
vere tutte e tre le spiegazioni. Tutti questi elementi messi
insieme “quagliano” miracolosamente e concorrono tutti insieme
a renderci familiari quelle pagine che, legalmente parlando,
non abbiamo mai letto.
Naturalmente il bibliofilo,
anche chi colleziona libri contemporanei, è esposto
all’insidia dell’imbecille che ti entra in casa, vede tutti
quegli scaffali, e pronuncia: “Quanti libri! Li ha letti
tutti?” L’esperienza quotidiana ci dice che questa domanda
viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più
che soddisfacente. Di fronte a questo oltraggio esistono, a
mia scienza, tre risposte standard. La prima blocca il
visitatore e interrompe ogni rapporto, ed è: “Non ne ho letto
nessuno, altrimenti perché li terrei qui?” Essa però gratifica
l’importuno solleticando il suo senso di superiorità e non
vedo perché si debba rendergli questo favore.
La
seconda risposta piomba l’importuno in uno stato
d’inferiorità, e suona: “Di più, signore, molti di più!” La
terza è una variazione della seconda e la uso quando voglio
che il visitatore cada in preda a doloroso stupore. “No,” gli
dico, “quelli che ho già letto li tengo all’università, questi
sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima.”
Visto che la mia biblioteca conta cinquantamila volumi,
l’infelice cerca soltanto di anticipare il momento del
commiato, adducendo improvvisi impegni. Quello che l’infelice
non sa è che la biblioteca non è solo il luogo della tua
memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della
memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai
trovare quelli altri hanno letto prima di te. E' un
repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una
vertigine, un cocktail della memoria dotta.
Ecco il
contenuto virtuale di una biblioteca: Monsieurs les anglais,
je me suis couché de bonne heure. Tu quoque, alea! Licht, mehr
Licht über alles. Qui si fa l'Italia o si uccide un uomo
morto. Soldato che scappa, arrestati sei bello. Fratelli
d'Italia, ancora uno sforzo. L'aratro che traccia il solco è
buono per un'altra volta. L'Italia è fatta ma non s'arrende.
Ben venga maggio, combatteremo all'ombra. Tre donne intorno al
cor e senza vento. L'albero a cui tendevi la nebbia agli irti
colli. Dall'Alpi alle Piramidi andò in guerra e mise l'elmo.
Fresche le mie parole nella sera pei quei quattro scherzucci
da dozzina. Sempre libera sull'ali dorate. Guido io vorrei che
al ciel si scoloraro. Conobbi il tremolar, l'arme, gli amori.
Fresca e chiara è la notte, e il capitano. M'illumino, pio
bove. Alle cinque della sera mi ritrovai per una selva oscura.
Settembre, andiamo dove fioriscono i limoni. Sparse le trecce
morbide, una spronata, uno sfaglio: questi sono i cadetti di
Guascogna. Tintarella di luna, dimmi che fai. Contessa, cos'è
mai la vita: tre civette sul comò.
C’è gente che,
arrivata alla fine della propria vita, dopo aver fatto ogni
giorno le stesse cose, si guarda indietro e non gli pare
neppure di essere stata al mondo. Tutto è passato
spaventosamente in fretta. Pensate invece a una giornata o a
una settimana in cui vi sono accadute moltissime cose, una
dietro l’altra, tutte emozionanti (sia che fossero gioie o che
fossero fastidi, o dolori): ricorderete ore o giorni pieni,
avrete l’impressione di avere vissuto moltissimo. Io credo che
questa sia una delle ragioni per cui gli uomini si sono
dedicati sempre a ricostruire il passato, sia per bocca dei
vecchi che raccontavano intorno al fuoco, sia attraverso i
libri. Qualcuno che, insieme ai suoi ricordi personali, abbia
anche la memoria di quel giorno che fu assassinato Giulio
Cesare, o della battaglia di Waterloo, ricorda più cose di chi
non sa nulla di quello che è accaduto agli altri. Un libro ci
consente di vivere più e più intensamente di quelle poche
decine di anni che la biologia ci consente. Rispetto a chi non
legge io sono più vecchio di Matusalemme.
Il bibliofilo
non è spaventato né da Internet, né dai CDrom né dagli
e-books. Su Internet trova ormai i cataloghi antiquari, su
CDrom quelle opere che un privato potrebbe difficilmente
tenere in casa, come i 221 volumi in folio della Patrologia
Latina del Migne. Però sa anche che il libro avrà lunga vita,
e se ne accorge proprio guardando con occhio amoroso i propri
scaffali. Se tutta quella informazione che egli ha accumulato
fosse stata registrata, sin dai tempi di Gutenberg, su
supporto magnetico, sarebbe riuscita a sopravvivere per
duecento, trecento, quattrocento, cinquecento,
cinquecentocinquant’anni? E si sarebbe trasmessa, coi
contenuti delle opere, la traccia di chi le ha toccate,
compulsate, annotate, tormentate e sovente sporcate con segni
di pollice, prima di noi? E ci si potrebbe innamorarsi di un
dischetto come ci si innamora di una pagina bianca e dura, che
fa crack crack sotto le dita come se fosse uscita ora dal
torchio?
Un libro è stato pensato per essere preso in
mano, anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono
spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è
scaricata, e sopporta segnacci e orecchie, può essere lasciato
cadere per terra o abbandonato aperto sul petto o sulle
ginocchia quando ci prende il sonno, sta in tasca, si sciupa,
registra l'intensità, l’assiduità o la regolarità delle nostre
letture, ci ricorda (se appare troppo fresco o intonso) che
non l’abbiamo ancora letto... Funzione del bibliofilo è anche
quella di testimoniare del passato e dell’avvenire del libro.
Tuttavia mi rendo conto di quanto sia difficile
parlare di bibliofilia ai non-bibliofili. Non solo perché un
conto è vedere un bel libro e un conto sentirne parlare. Il
cruccio di un collezionista di libri di pregio è che, se
collezionasse quadri del Rinascimento o porcellane cinesi, li
terrebbe nel soggiorno e tutti i visitatori ne rimarrebbero
estasiati. Invece il bibliofilo non sa mai a chi far vedere i
propri tesori: i non bibliofili vi gettano un’occhiata
distratta e non capiscono perché un libercolo secentesco in
dodicesimo, dai fogli arrossati, possa rappresentare
l’orgoglio di chi ne ha acquisito l’ultima copia ancora in
circolazione. E spesso anche un altro bibliofilo, se è un
collezionista di libri d’architettura rinascimentali, può
restare insensibile di fronte alla più preziosa raccolta
esistente di pamphlets rosacroce del diciassettesimo secolo.
Per questa ragione, e per non tediarvi ulteriormente, ho
deciso di dedicare il tempo che ci resta ad alcune divagazioni
su aspetti marginali e curiosi del collezionismo, vale a dire
ai libri bizzarri, talora deliranti, in ogni caso
inattendibili che popolano – a ben saperli leggere – i
cataloghi di libri rari.
Leggere i cataloghi significa
scoprire presenze inattese, purché si abbia la pazienza di
andarle a scovare in quelle sezioni che i librai di solito
intitolano "Varia et Curiosa". Si scoprono allora libri i cui
titoli ci fanno sognare. Anni fa, in un solo catalogo
intitolato Cabinet de curiosités ho trovato squisite
pubblicazioni mediche dell'epoca positivistica – come analisi
sulla follia di Rousseau, un Maometto considerato come
alienato del 1842, esperimenti di trapianto di testicoli dalla
scimmia all'uomo; protesi testicolari in argento, le opere del
celebre Tissot sulla masturbazione (come causa di cecità,
sordità, demenza precoce e così via), un'operetta in cui si
denuncia la sifilide come malattia pericolosa perché è
possibile causa di tubercolosi, un'altra del 1901 sulla
necrofagia.
Poi, un certo Andrieu, sullo stuzzicadenti
e i suoi inconvenienti, 1869. Tale Ecochoard, sulle varie
tecniche d'impalamento, nonché Foumel, sulla funzione dei
colpi di bastone (1858), dove si fornisce una lista di
scrittori o artisti celebri che sono stati bastonati, da
Boileau a Voltaire e Mozart. Tale Berillon (indicato come
esempio di uomo di scienza accecato dal nazionalismo) in piena
guerra mondiale (1915) scrive un La polychesie de la race
allemande dove dimostra che il tedesco medio produce più
materia fecale del francese, e di odore più sgradevole. Un
signor Chesnier-Duchene (1843) elabora un complesso sistema
per tradurre il francese in geroglifici di nuovo conio, in
modo di renderlo comprensibile a tutti i popoli. Tal
Chassaignon scrive nel 1779 quattro volumi di cui vale la pena
di assaporare il titolo: Cataractes de l'imagination, déluge
de la scribomanie, vomissement littéraire, hémorragie
encyclopedique, monstre des monstres. Questo signore, che i
bibliografi definiscono unanimemente come dissennato, gioca su
tutta la letteratura universale, da Virgilio agli
scrittorucoli più demenzialmente marginali, per trascinarli
nel giro del proprio delirio, traendone citazioni, episodi
curiosi, osservazioni che riempiono pagine e pagine di note,
passando dai pericoli della critica della modestia all'elogio
della lode, dalle profezie di Ezechiele alle radici della
liquerizia.
Avevo anche trovato un'operetta del 1626
sull'Ordine dei Cornuti Riformati, che di questi adepti
descrive lo statuto, la cerimonia d'iniziazione, e fa risalire
l'origine dei cornuti alla Torre di Babele. Erano pazzi tutti
gli autori di questi libri? Uso a buon diritto la parola
“pazzi” perché esistono libri di storiografia dei folli
letterari, che si occupano di autori "matti", non solo
nell'ambito della letteratura ma anche delle scienze. Tra i
più noti cito Les fous littéraires di Gustave Brunet,
Bruxelles 1880. Il nostro Brunet non faceva una chiara
distinzione tra opere folli e opere (anche sensatissime) di
autori che nella vita privata soffrivano di disturbi
psichiatrici. Ma certamente egli riteneva che l'opera di un
folle fosse folle, e che un'opera che a lui pareva folle
presupponesse un autore folle. Appare pertanto ovvio che,
accanto a un Henrion che nel 1718 aveva presentato una memoria
sulla statura di Adamo, Brunet citasse persino Socrate,
Newton, Poe e Walt Whitman. Bisogna dire che Brunet aveva una
sua logica. Per Socrate si chiedeva se non bisognasse
classificare tra i matti un signore che affermava di avere un
demone famigliare. Concludeva che si trattava in ogni caso di
monomania.
Tra gli eredi di Brunet, il più celebre ai
giorni nostri è stato André Blavier, che aveva pubblicato un
volume di quasi mille pagine su Les Fous Littéraires,
schedando millecinquecento opere di pazzi letterari. Ed ecco,
in questa rassegna di mirifici orrori, inventori di lingue
universali, apostoli di nuove cosmogonie, profeti, visionari,
nuovi messia, quadratori del cerchio, inventori di macchine
per il moto perpetuo, filantropi che propongono palingenesi
sociali, igienisti che celebrano i vantaggi della marcia
all’indietro, medici che hanno studiato la quantità di
“animalucoli” nocivi che abitano lo sperma umano, un sociologo
che propone un metodo per utilizzare socialmente gli
assassini, un tal Madrolle che discute della teologia delle
ferrovie, l’opera di Félix Passon, Demonstration de
l’immmobilité de la terre, del 1829, la Réfutation du systhème
de Copernic di Pierre Sindoco, del 1878; il lavoro di un tal
Tardy che prova come il nostro globo giri su se stesso in
quarantott’ore, l’Essai d’une nouvelle hypothèse planétaire di
Van de Cotte (1851), dove si dimostra che, se si accetta
Copernico, una città non potrebbe mai essere bombardata
perché, la bomba restando almeno qualche secondo in aria prima
di cadere, nel frattempo la superficie terrestre si sarebbe
spostata.
Un'altra categoria di libri curiosi che
alcuni appassionati cercano di collezionare, è quella degli
autori che in un vecchio saggio avevo chiamato autori di
Quarta Dimensione. Definivo Prima Dimensione quella dell’opera
in forma manoscritta, e Seconda Dimensione quella dell’opera
pubblicata da un editore serio. Calcolando come Terza
Dimensione quella del successo, individuavo come quarta
dimensione quella degli autori a proprie spese, di solito
pubblicati da case editrici specializzate nello sfruttamento
di questi talenti giustamente incompresi. Ne ho tratto materia
narrativa raccontando delle case editrici Manuzio e Garamond
nel mio Il pendolo di Foucault, ma se state attenti a
individuare sui giornali pubblicità di infiniti premi di
poesia per esordienti vedrete come essa prospera ancora.
Personalmente ho raccolto una piccola bibliotechina di autori
a proprie spese che ha tutti i titoli per entrare nel mercato
antiquario. Uno dei miei pezzi più preziosi è il Dizionario
biografico di personaggi contemporanei di Domenico Gugnali,
Gugnali editore, Modica. Cerchiamo la voce "Cesare Pavese". È
esatta e sobria: "Pavese Cesare. Nato a Santo Stefano Belbo il
9-9-1908. Morto a Torino il 27 agosto 1950. Traduttore,
scrittore." Poco avanti abbiamo invece: "Paolizzi Deodato.
Uomo di penna ed uomo di lettere; ecco Deodato Paolizzi. Fin
dalla sua prima giovinezza si fece notare per le sue spontanee
poesie, ma specialmente per i suoi scritti incisivi in cui già
si sentiva l'avvocato di domani." Seguono cenni sul suo
celebre romanzo Il destino in marcia e note sulla sua attività
civile e politica. Sempre nella "P", dopo tre righe su
"Piovene Guido" segue la lunga biografia di Pusineri Chiesa
Edvige, maestra elementare di Lodi, poetessa e scrittrice,
autrice di Mesti palpiti, Alba serena, Cantici, Il legionario,
Sussurri lievi, Aurei voli, Chiarori nell'ombra, Le avventure
di Fuffi. È redattrice milanese del periodico "Intervallo"
che, per caso, è edito dal Gugnali che pubblica il dizionario
in questione. La voce è corredata dalla foto della Pusineri
Chiesa, che appare in tutta la gloria di una sua opulenta
maturità, accanto all'immagine della "delicata poetessa sarda"
Puligheddu Michelina.
Le biografie del Gugnali ci
svelano un universo letterario ricco e fecondo e spesso
tratteggiano una personalità di scrittore in pochi cenni
essenziali: "Cariddi Walter. Nato a San Pietro Vernotico,
Brindisi, il 4-2-1930, ivi residente (conosciuto)." Poeta,
critico e pubblicista "ha una vocazione per gli studi seri
congiunta all'impegno per più notevoli successi ". C’è Leonida
Gavazzi (Cromatogramma tridimensionale dell'esistenza e La
ragnatela dell'essere), Gargiuto Gaetano, fondatore del
movimento poetico dell' Armonismo (che invia anche poesie
dattiloscritte in edizione numerata ai giornali), Maira
Rosangela ("prese parte al concorso Brava e Bella indetto fra
le studentesse siciliane del "Progresso italo-americano” ...
premiata con un apparecchio radio"), Montanelli Menicatti
Elena ("una delle più apprezzate poetesse del nostro tempo"),
Mignemi Gregorio (autore di un Temi svolti), Moscucci
Cittadino ("autore di molte canzonette musicate dal maestro
Cotogni e cantate alla radio dal tenore Sernicoli") e, per
finire, Scarfò Pasquale (autore di un Il signore delle camelie
di cui si sa che "ragioniere e dottore commercialista, ha
preferito sempre alla professione, però, la vita militare"),
nonché un Umani Giorgio, autore, oltre che di L'ineffabile
orgasmo, di un volume Umani 1937 e, come dice la biografia con
una certa ridondanza, "profondo studioso di problemi umani".
Ho i due volumi di Carlo Cetti Difetti e pregi dei
Promessi Sposi e Rifacimento dei Promessi Sposi, di cui il
secondo è l'adempimento dei propositi critici del primo.
Argomenta il Cetti che bene avrebbe fatto il Manzoni a
riscrivere un'altra volta il suo romanzo rendendolo meno greve
col ridurre di un terzo il numero delle sillabe. "Perché dire
'lago di Como' e 'mezzogiorno' invece di 'Lario' e 'sud'?
...Anziché dire 'tutto a seni e a golfi' è meglio dire 'tutto
seni e golfi' evitando la duplice ripetizione di quell'a."
Così il Cetti riesce a riscrivere il romanzo in sole 196
pagine (pubblicate a cura dell'autore, Como, 1965) dall'inizio
che suona "Quel ramo del Lario..." al finale che dice
sobriamente, dopo la morte di padre Cristoforo, "il povero
giovane, sopraffatto da commozione e da gioia, piangeva". Si
badi bene che non si tratta di un semplice riassunto ma di un
vero e proprio ricalco con asportazione di sillabe eccedenti.
Sui Promessi Sposi si accanisce anche Vincenzo Costanza
("ammesso all'esame di libera docenza per caso speciale di
alta scienza", da Agrigento) in Il pecoronismo incantevole in
Italia, dove però la polemica abbandona rapidamente il Manzoni
per sostenere che non si dice Treccàni ma Trèccani.
Come c'è il poeta e il narratore, così c'è il filosofo
di quarta dimensione. La figura che ha giganteggiato in questo
campo verso la metà del novecento è stata quella di Giulio
Ser-Giacomi, di Offida {Ascoli Piceno), che spargeva lo
sconcerto nei congressi filosofici e che fu autore di volumi
di ampia mole. Tra questi, celebre rimane l'epistolario con
Einstein e Pio XII, che raccoglieva per centinaia di pagine
tutte le lettere inviate dall’autore a Pio XII e a Einstein
(senza naturalmente ottenere mai alcuna risposta) e in cui si
confutavano a un tempo sia la metafisica cristiana che quella
relativistica. Nelle riflessioni conclusive al diciassettesimo
congresso di filosofia (dove, come nei congressi precedenti,
gli interventi del Ser-Giacomi suscitavano giusta
preoccupazione) il filosofo affermava: "I numerosi argomenti
sulla storia, da me posti e risolti in Alea iacta est e perciò
'anticipati', nessuno si è interessato di discuterli, come
pure gli altri esposti in Gutta cavat lapidem che mi sono
preoccupato di far recapitare a molti studiosi prima del
Congresso... La filosofia ha bisogno di una nuova linfa,
quella linfa che io le ho da tempo data... " Ser-Giacomi
concludeva l'intervento al congresso rivolgendo un appello
affinché lo si aiutasse a trovare un mecenate "per la
ristampa, a migliaia di copie, di tutti i miei
scritti".
La mia raccolta di autori di quarta
dimensione continua ad arricchirsi. Ho ricevuto qualche anno
fa, come "prova di stampa - campione gratuito" il libro di
Romano Pizzigoni, Rivolta di un uomo tranquillo. Il libro
contiene lettere che il Pizzigoni ha mandato praticamente a
tutti. All'editore Baraghini per discutere la relatività e
lamentare che il New York Times e il Los Angeles Times, a cui
aveva inviato moltissimi articoli, avessero liberamente
ripreso le sue idee; a Bush (padre) per invitarlo a non
ripresentarsi alle elezioni; ai deputati e senatori per
protestare contro il festival di San Remo; a Enzo Biagi
sull'esistenza di Dio; al re dell'Arabia Saudita, a Saddam
Hussein per dare consigli sull'equilibrio mondiale; a Giorgio
Bocca sul comunismo; alla redazione dell'Espresso per
invitarli a non inviargli più gratuitamente il settimanale
(cosa che mi stupisce perché non lo mandano neppure a me);
alla rivista Nature sulla scomparsa dei dinosauri; alla
fondazione Nobel per esortarli a non premiare dei furfanti; a
varie istituzioni per accusare Hawking di averlo plagiato; a
Ceronetti sul nazismo; a Tortora ormai malato di cancro,
indicandogli i mezzi piscologici per non morire; a Canale 5 e
per conoscenza a Berlusconi per offrire collaborazione; a
Bobbio su dittatura e democrazia; ad Alberoni sulla scuola
dell'obbligo, e via dicendo.
Chi sia il Pizzigoni ce lo
diceva lui stesso in una pagina autobiografica. Allora
cinquantaseienne, licenza elementare, sfuggito alla
repressione della scuola dell'obbligo, operaio all'Alfa per
due mesi, aveva rifiutato la catena di montaggio, era emigrato
a Parigi, aveva lavorato all'Ansa come operatore di
telescriventi, era diventato fotoreporter per dieci anni,
quindi aveva iniziato un'altra attività non specificata che
gli permetteva di farsi una casa con vista sul mare, ma "gli
sciacalli, in agguato, travestiti da giudici, avvocati,
bancari, lo spoglieranno, lasciandolo quasi nudo in mezzo a
una montagna fra popolazioni semi-selvagge". Ora, per protesta
contro il mondo, faceva lunghi scioperi della fame (ma –
scriveva - diversi da quelli di Pannella che, appena la gente
si voltava "sganasciava a più non posso"). Per non dover
pagare le tasse preferiva non guadagnare nulla, riuscendo a
vivere con cinquemila lire al giorno (su cui non so se
pesassero anche le spese postali).
Non era privo di
ambizioni, e chiedeva di essere nominato Dittatore per il
periodo di un anno. Il suo programma si componeva di una
sessantina di punti tra cui: divieto di emettere buoni del
tesoro per alcuni anni; licenziamento di almeno il settanta
per cento del personale statale; abolizione della patente di
guida; soppressione di mutue e pensioni, tasse di ogni tipo,
consolati e ambasciate (da sostituire con contatti
radiotelevisivi); libertà di commercio e esportazione per
oggetti d'arte; chiusura quasi totale degli ospedali e
creazione di un corpo medico che insegnasse ai cittadini come
non ammalarsi; allattamento al seno obbligatorio; scuole
diversificate al massimo... E questi erano propositi che
avrebbero anche potuto allettare il nostro nuovo governo. Ma
pareva difficile come conciliare gli interessi del nuovo con
queste altre decisioni: abolizione del calcio
professionistico; proibizione di importare carne, tabacco e
alcolici; proibizione della gomma da masticare; abolizione
della caccia; abolizione dell'ottanta per cento di automobili;
nei momenti di crisi obbligo per le aziende di rinunciare a
profitti; abolizione di tutta la pubblicità televisiva;
stipendio minimo a tutti i cittadini italiani, dalla nascita
alla morte. Per non dire di proponimenti che imbarazzerebbero
qualsiasi gruppo politico, tranne la Lega Lombarda, quali
l'abolizione delle forze armate, l'espulsione di tutti gli
stranieri dal territorio nazionale, o il trasporto della
capitale a Merano.
Non è che al Pizzigoni mancasse il
senso della realtà: le copie pilote del suo libro contenevano
moduli con cui i lettori potevano sottoscrivere obbligazioni
di un milione ciascuno (non più di settanta in totale, per
coprire le spese di stampa), interamente restituibili al
raggiungimento delle prime cinquantamila copie vendute. Era un
rischio per i lettori, nel caso sfortunato che l'autore fosse
riuscito a vendere solo 49.000 copie. Ma poteva valere la
pena, visto che il secondo comma del contratto prevedeva che
ogni sottoscrittore ricevesse interessi di tre milioni al
raggiungimento delle prime 450.000 copie vendute. Una proposta
onesta, perché 450.000 copie a 5000 lire fanno due miliardi e
duecentocinquanta milioni, e tre milioni per settanta fanno
duecentodieci milioni. Quindi saremmo stati di poco sotto al
dieci per cento di interessi. Ma cosa sarebbe accaduto se il
Pizzigoni fosse riuscito nel capolavoro di vendere solo
449.999 copie?
D’altra parte, non siamo severi con i
folli letterari. Quanti, che oggi consideriamo grandissimi,
non sono stati considerati folli ai tempi del loro esordio?
Come richiamo a un maggior rispetto per i folli letterari,
ricorderò alcuni episodi storici, andatevi a leggere due
raccolte, Rotten Rejections di André Bernard e Experts speak
di Christopher Cerf e Victor Navasky, tradotto nel 1985 da
Frassinelli come La parola agli esperti. Sono autori che hanno
saputo reperire e sfogliare in biblioteca non solo vecchi
archivi editoriali ma anche saggi critici dimenticati e
persino recensioni su varie gazzette. "Sarò forse duro di
comprendonio, ma non riesco proprio a capacitarmi del fatto
che un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere
come si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno". Con
questa motivazione un lettore dell’editore Ollendorf aveva
respinto la Recherche di Proust.
Nel 1851 Moby Dick
viene respinto in Inghilterra col seguente giudizio: “Non
pensiamo che possa funzionare per il mercato della letteratura
per ragazzi. È lungo, di stile antiquato, e ci pare che non
meriti la reputazione di cui pare godere.” A Flaubert nel 1856
viene respinta Madame Bovary con questa lettera: “Signore,
avete seppellito il vostro romanzo in un cumulo di dettagli
che sono ben disegnati ma del tutto superflui.” A Emily
Dickinson, viene rifiutato il primo manoscritto di poesie nel
1862 con: “Dubbio. Le rime sono tutte sbagliate”. Si rifiuta
La fattoria degli animali di George Orwell: “Impossibile
vendere storie di animali negli USA.” Per il Diario di Anna
Frank: “Questa ragazza non sembra avere una speciale
percezione ovvero il sentimento di come si possa portare
questo libro al di sopra di un livello di semplice curiosità.”
Per passare alla critica militante, ecco cosa Eugène
Poitou, nella Revue des deux mondes del 1856 diceva di Honoré
de Balzac: “Nei suoi romanzi non c’è niente che riveli
particolari doti immaginative, né la trama, né i personaggi.
Balzac non occuperà mai un posto di rilievo nella letteratura
francese”. Quanto a Emily Brontë: “In Cime tempestose i
difetti di Jane Eyre [della sorella Charlotte] vengono
moltiplicati per mille. A pensarci bene, l’unica consolazione
che ci resterà è il pensiero che il romanzo non diventerà mai
popolare” (James Lorimer, North British Review, 1849). Emily
Dickinson: “L’incoerenza e la mancanza di forma delle sue
poesiole - non saprei definirle altrimenti - sono spaventose.”
(Thomas Bailey Aldrich, The Atlantic Monthly,
1982).
Herman Melville: “Moby Dick è un libro triste,
squallido, piatto, addirittura ridicolo.... Quel capitano
pazzo, poi, è di una noia mortale.” (The Southern Quarterly
Review, 1851). Walt Withman: “Walt Withman ha lo stesso
rapporto con l’arte che un maiale con la matematica” (The
London Critic, 1855). Passiamo alla musica. Su Bach, Johann
Adolph Scheibe affermava nel Der critische Musikus, 1737: “Le
composizioni di Johann Sebastian Bach sono totalmente prive di
bellezza, di armonia e, soprattutto, di chiarezza.” Louis
Spohr recensiva nel 1808 la prima esecuzione della Quinta di
Beethoven con: “Un’orgia di frastuono e di volgarità”. Ludwig
Rellstab (Iris im Gebiete der Tonkunst, 1833) diceva che
Chopin “se avesse sottoposto le sue musiche al giudizio di un
esperto, questi le avrebbe stracciate... Comunque vorrei farlo
io.” La Gazette Musicale de Paris, 1853, scriveva che “Il
Rigoletto è carente sul piano melodico. Quest’opera non ha
nessuna possibilità d’inserirsi nel repertorio”.
Quanto all'incomprensione tra geni, Emile Zola, in
occasione della morte di Baudelaire, necrologizzava: “Fra
cent’anni Les fleurs du mal verranno ricordati solo come una
curiosità”. Nel Diario di Virginia Woolf si legge: “Ho appena
terminato di leggere lo Ulysses e lo giudico un insuccesso...
E’ prolisso e sgradevole. E’ un testo rozzo, non solo in senso
oggettivo, ma anche dal punto di vista letterario”.
Ciaikowskij nel suo diario scriveva di Brahms: “Ho studiato a
lungo la musica di quel furfante. E’ un bastardo privo di
qualità.” Finiamo con una sola citazione dallo show business.
Un dirigente della Metro, dopo un provino di Fred Astaire, nel
1928: “Non sa recitare, non sa cantare ed è calvo. Se la cava
un po’ con la danza.” Che poi, a pensarci bene, non era del
tutto sbagliato. Eppure era un errore.
Mi si potrà ora
chiedere perché, dopo aver iniziato in modo così alto e severo
sul valore del libro e i piaceri raffinati della bibliofilia,
abbia poi concluso con una serie di piacevoli irrilevanze –
ovvero, come si diceva un tempo, sciocchezzuole e
pinzillacchere. E' che volevo invogliare i miei ascoltatori
non dico a leggere cataloghi, né ad acquistare Cosmografie di
Münster per ventimila euro, ma almeno ad aggirarsi per
biblioteche con la speranza di farvi qualche incontro curioso,
sapendo che non vi si trovano solo i prodotti del genio,
talora non molto esilaranti, ma anche i prodotti della follia,
del cui elogio già altri si è occupato.
Vorrei insomma
che accadesse ai miei ascoltatori quello che è accaduto al
marchese Fuscaldo, immortale personaggio di Achille Campanile
che, da giovane, aprendo per caso un libro nell'immensa
biblioteca paterna, vi aveva trovato tra le pagine una
banconota da mille lire – per il resto della sua vita aveva
passato ogni giorno a sfogliare pagina per pagina tutte le
altre decine di migliaia di volumi, nella speranza di ripetere
quella fortunata trouvaille – e così era diventato in tarda
età l'uomo più dotto ed erudito del suo tempo».